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Essere o apparire? L’eredità di Erving Goffman nell’era di Instagram

Nell’epoca dei social media, dove ogni gesto può essere immortalato e ogni espressione curata per il pubblico online, la riflessione del sociologo Erving Goffman sul comportamento quotidiano appare più attuale che mai. La sua celebre metafora teatrale, elaborata nel libro La vita quotidiana come rappresentazione (1956), offre ancora oggi uno strumento potente per comprendere come costruiamo e gestiamo la nostra immagine pubblica — solo che ora il palcoscenico si è spostato sullo schermo di uno smartphone.

Il sé come performance

Secondo Goffman, ogni individuo, nella vita di tutti i giorni, mette in scena una “performance” per presentarsi agli altri in modo favorevole. La vita sociale somiglia a una rappresentazione teatrale in cui ognuno interpreta un ruolo a seconda del contesto, cercando di controllare l’impressione che gli altri ricevono di lui o lei. L’interazione sociale, in questo senso, è una danza continua tra ciò che vogliamo mostrare e ciò che gli altri colgono.

Oggi, questa teoria sembra descrivere perfettamente il comportamento su Instagram, TikTok, Facebook e simili: ogni post, ogni selfie, ogni storia è una forma di auto-rappresentazione, spesso costruita con cura per trasmettere un’immagine precisa di sé.

Il fronte e il retroscena digitale

Goffman distingue tra “palcoscenico” (front stage) e “dietro le quinte” (back stage): nel primo, l’individuo agisce per un pubblico; nel secondo, si rilassa e può essere sé stesso senza recitare. I social media, però, confondono questi due spazi: il dietro le quinte diventa parte della rappresentazione, e anche i momenti “intimi” o “autentici” sono spesso pensati per essere mostrati.

Il fenomeno dei “contenuti spontanei” — video che sembrano casuali, confessioni emotive, immagini senza filtri — è parte di questa ambiguità: anche l’autenticità diventa una performance. Come osservano sociologi contemporanei come Sherry Turkle (Alone Together) o Zygmunt Bauman, la cultura digitale incoraggia la costruzione di identità flessibili e “liquide”, sempre pronte ad adattarsi agli sguardi altrui.

Like come applausi, filtri come costumi

Nel teatro quotidiano di Instagram, i like sono gli applausi, e i filtri diventano i nostri costumi di scena. Il profilo personale diventa una sorta di vetrina, una “vetrinizzazione del sé” (termine usato anche da Giovanni Boccia Artieri), dove l’identità è curata come un brand. Ma questa continua esposizione può anche generare ansia da prestazione, dipendenza dall’approvazione esterna, e una fragilità del senso di sé.

Tra visibilità e controllo

Goffman ci invita a chiederci non solo chi siamo, ma per chi recitiamo. Nell’era digitale, l’audience è potenzialmente illimitata, e ciò rende il controllo della performance ancora più complesso. La nostra immagine è condivisa, commentata, reinterpretata. Questo solleva questioni importanti sul rapporto tra visibilità, privacy, identità e autenticità.


Goffman non ha conosciuto Instagram, ma ci ha lasciato gli strumenti per decifrarlo. La sua teoria della performance sociale ci aiuta a riflettere su come viviamo e rappresentiamo noi stessi oggi, ricordandoci che ogni interazione è una scena, ogni profilo un palcoscenico, ogni like un piccolo applauso. E forse, dietro tutto questo, resta la domanda più autentica: quanto di ciò che mostriamo siamo davvero noi?

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